Si parla sempre dello strapotere di Facebook e dei social, citando e menzionando storia di blocchi, sospensioni account, ban e cancellazione dei profili per aver commesso azioni che violano il Regolamento di Facebook.
Nessuno si sognerebbe di opinare un ban o un’operazione di censura per la pubblicazione di pornografia, per la pubblicazioni di frasi inneggianti al Nazismo o al Ku Klux Klan, ma ben sappiamo che i motivi per ottenere un blocco di Facebook, che sia essa una sospensione temporanea di 30 giorni, che sia essa un ban a vita con relativa cancellazione dell’account sono molto più blandi, leggeri e discutibili.
Nel video seguente voglio portare a testimonianza una mia esperienza reale, cercata e voluta con un’immagine di prova per far scattare quello che immaginavo fosse scattato, un blocco di 30 giorni al mio account Facebook.
E’ bastato davvero poco in realtà, per far scattare la sospensione dell’account per 30 giorni, e non ho dovuto ricorrere a nessuna delle immagini e dei contenuti sopra citati che avrebbero sicuramente costituito anche un illecito dal punto di vista penale e non solo etico o morale.
E’ bastato insomma pubblicare una foto di Jonathan Galindo per ritrovarsi bannato Venerdì scorso per 30 giorni.
Ma chi è o che cos’è Jonathan Galindo ?
Sul Resto del Carlino:
Jonathan Galindo, la folle sfida. Un gioco all’autolesionismo
L’articolo riporta:
Jonathan Galindo è tra noi. Specie nei social e nelle chat tra compagni di scuola di 12-13enni. Alcuni genitori preoccupati per quello che sembra essere il seguito della terribile Blue Whale challenge si sono anche rivolti alle forze dell’ordine e vogliono avvertire chi ancora non conosce il fenomeno di prestare la massima attenzione. Jonathan Galindo che attraverso la faccia di Pippo deformato con sembianze umane ma che provocano spavento, si insinua nei social network degli adolescenti, è già entrato in contatto con ragazzini del capoluogo dorico ma anche della provincia.
Ce ne sono state a bizzeffe di quotidiani nazionali e non che hanno riportato la notizia sensazionalistica da clickbait, praticamente ogni testata nazionale o internazionale conosciuta e non.
In realtà dietro a tanto Hype, sensazionalismo tale da dover persino scomodare dotti scienziati del policlinico Gemelli (come nella foto seguente), c’è il nulla, ovvero una leggenda urbana che ha preso piede ed è stata gonfiata a dismisura grazie al comportamento scorretto, superficiale della stampa e dei suoi articoli FALSI, utili solo a prendere click per ottenere guadagni pubblicitari.
Come riporta l’indagine di Wired di un anno fa su Jonathan Galindo :
Non solo: anche Blue whale e Momo sono rientrati in gioco, e non sempre è spiegata chiaramente negli articoli la loro matrice leggendaria. Dare un volto ai pericoli Al di là della professionalità o meno dei media, ci potremmo chiedere cosa rende queste storie irresistibili. “Storie del genere sono sempre esistite”, spiega a Wired Sofia Lincos: “Nel 1878, Robert Louis Stevenson rese popolare in una serie di racconti l’idea di un “club dei suicidi”, un luogo dove i soci si incontravano tutte le settimane, giocavano a carte, e chi pescava l’asso di picche avrebbe dovuto essere ucciso da un altro membro del club. Quello che aveva pescato l’asso di fiori, per l’esattezza. Non era solo un’invenzione letteraria: da diversi anni le cronache d’epoca riportavano storie simili, club legati da misteriosi patti di morte o simili usanze, la cui esistenza era però molto più vagheggiata che fattuale”.
In tempi più recenti, si diceva che i giovani appassionati di metal o di giochi di ruolo (classico l’esempio di Dungeons and Dragons), rischiassero di essere cooptati da sette sataniche che li inducevano poi al suicidio. “Sono leggende che nascono dall’ansia dei genitori verso mondi che, il più delle volte, gli sono sconosciuti. L’idea che, cioè, seguendo qualche nuova moda o gioco al di fuori della loro portata, i loro figli possano finire in situazioni pericolose e forse anche mortali”, commenta Lincos
Jonathan Galindo si aggiunge a questa lista di panici morali, che servono in qualche modo a dare un volto ai pericoli del web: il cyberbullismo, l’anonimato dietro a cui si può celare il malintenzionato, l’interazione non sempre voluta tra virtuale e reale. Sono questi i veri rischi di internet: mascherarli dietro a un volto spaventoso, quello del Pippo deformato o di Momo, non aiuta davvero a conoscerli ed evitarli.
E come sottolinea ancora BUTAC (Bufale un Tanto al chilo) nella loro indagine :
I giornalisti italiani hanno riportato quello che hanno trovato su altre testate straniere poco affidabili, senza fare alcun approfondimento. Dando così motivo d’ispirazione ad altri. I cosiddetti copycat, che – esattamente come successo per la Blue Whale Challenge – compaiono come i funghi subito dopo che qualche testata ha raccontato notizie di questo genere.
Copioni seriali che sfruttano lo spauracchio messo in rete per renderlo reale, creano profili come hanno letto sui giornali, recuperano le foto che gli stessi giornalisti hanno messo a disposizione, ed il gioco è fatto. Ecco che il mostro delle fiabe è diventato reale.
Può Facebook sospendere o bannare un account sulla base di Bufale ?
La vera domanda è questa.
Capire se un’azienda che detiene di fatto un monopolio di fatto nell’informazione online, detenendo Facebook, Messenger, Instagram e WhatsApp possa bannare un utente sulla base di decisione a cazzo di cane senza di fatto aver violato alcuna regola civile o penale.
Eppure la legge è stata chiara come riporta Studio Cataldi commentando una sentenza del tribunale di Pordenone (articolo del post qui) :
A Facebook non è consentito disattivare profili in base a violazioni solo presunte ed evidenziate senza contraddittorio. Il social network dovrà pagare una penale per ogni giorno di ritardo nella riattivazione dell’account immotivatamente disattivato.Lo ha deciso il Tribunale di Pordenone che, pronunciandosi nella causa civile n. 2139/2018, ha accolto il ricorso ex art. 700 c.p.c. promosso da un utente Facebook che si era visto disattivare e cancellare il profilo personale e, di conseguenza, era stato privato della possibilità di gestire la sua pagina presente sul social.